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Mary e Percy Shelley giunsero in Italia il 30 marzo 1818 e, dopo aver trascorso un mese a Milano, arrivarono a Livorno il 9 maggio. Qui Mary prese contatti con Maria Gisborne, che era una grande amica del padre, il filosofo William Godwin (che avrebbe anche voluto sposarla dopo la morte della moglie Mary Wollstonecraft), e l’aveva vista bambina. Durante questa prima visita gli Shelley non affittarono una residenza, ma soggiornarono in alberghi. Dopo una brevissima sosta all’Albergo Aquila Nera, nel secentesco Palazzo Ginori, sugli scali della Venezia, in Via del Porticciolo n° 354 (Fig. 1), presero alloggio all’Hotel Croce di Malta, in Via Ferdinanda (l’attuale Via Grande) n° 45 (Fig. 2). La prima impressione che Mary ebbe della città non può certo definirsi positiva. Il giorno stesso del suo arrivo nel suo diario la definì “A stupid town” (M. Shelley, Journals, 1: 209), e pochi giorni dopo dichiarò in una lettera l’intenzione di allontanarsene presto perché troppo rumorosa (“This town is a noisy mercantile one and we intend soon to quit it”, M. Shelley, Letters, 1: 67). Nonostante questo, la coppia vi si trattenne fino all’11 giugno, quando si trasferì a Bagni di Lucca, in una casa che Percy aveva preso in affitto.
Gli Shelly tornarono a Livorno l’anno successivo, il 17 giugno 1819, soltanto dieci giorni dopo la morte per malaria del figlio William, a Roma. L’Hotel Croce di Malta era chiuso per ristrutturazione (avrebbe riaperto soltanto a ottobre), e presero di nuovo alloggio all’Albergo Aquila Nera. Lo stabile, che al pari dell’Hotel Croce di Malta è andato distrutto nei bombardamenti del 1943 (Figg. 3 e 4), si trovava all’inizio dell’attuale Via della Venezia, in prossimità della chiesa di San Ferdinando Re, detta della Crocetta, e del Ponte Lungo (Fig. 5), ora Ponte di Venezia. Dopo una settimana, però, il 23 giugno, gli Shelley lasciarono la confusione della zona portuale per trasferirsi in una dimora situata in un podere in Via Valsovano, dove, cambiando i loro piani iniziali di recarsi per qualche mese a Firenze, restarono fino al 30 settembre (Fig. 6). Adesso Via Valsovano porta il nome di Via del Fagiano, ma si accede alla villa da Via Filippo Venuti, 23 (Fig. 7).
Questa nuova residenza costituì, per Percy, il rifugio ideale. Come scrisse in una lettera (Lettera di Percy a Thomas Love Peacock del 6 luglio 1819), la sua condizione fisica e mentale stava migliorando, e da Villa Valsovano poteva vedere da un lato il mare con le sue isole Gorgona, Capraia, Elba e Corsica, e dall’altro gli Apennini . Nella quiete della campagna livornese, concluse Prometheus Unbound e compose buona parte di The Cenci, di cui fece stampare a Livorno 250 copie, che poi spedì a Londra (“Note on The Cenci”). Per Mary, invece, come apprendiamo dalle lettere, questo fu un periodo di intensa angoscia. Nel giro di un anno aveva visto morire due figli in tenera età: la perdita di William, di tre anni, era infatti stata preceduta da quella di Clara, di appena un anno, che era morta di dissenteria a Venezia nel settembre 1818. Il ricordo doloroso dei figli scomparsi non le dava tregua, e, a giudicare da quanto scrisse in una lettera a Marianne Hunt, sembrerebbe che soltanto i suoni della campagna livornese riuscissero a distrarla (Lettera di Mary a Marianne Hunt del 28 agosto 1819). A Villa Valsovano, Mary scrisse (dal 4 agosto al 14 settembre) Matilda, una novellette che, per il tema ritenuto scabroso, non trovò un editore all’epoca e fu pubblicata soltanto nel 1959.
Il terzo e ultimo soggiorno degli Shelley a Livorno fu nel 1820. Questa volta vi si trattennero per quasi due mesi (dal 15 giugno al 5 agosto) e soggiornarono nella casa dei loro amici Maria e John Gisborne, che erano andati a Londra (“Note on the Poems of 1820”). Gli Shelley si erano recati a Livorno per consultarsi con l’avvocato Francesco del Rosso riguardo il tentativo di ricatto di Paolo Foggi, un servitore che gli Shelley avevano assunto al loro arrivo in Toscana nel maggio del 1818, li aveva seguiti anche a Napoli l’anno siccessivo, e stava spargendo voci diffamatorie sul loro conto, asserendo che una misteriosa bambina, che era nata mentre si trovavano nella città partenopea e che gli Shelley avevano registrato come figlia loro, con il nome di Elena Adelaide Shelley, fosse, in realtà, figlia di Percy e della sorellastra di Mary, Claire Clairmont. La dimora dei Gisborne, Casa Ricci, anch’essa andata distrutta, era un edificio rustico che si trovava, probabilmente, al n° 59 di Viale Guglielmo Marconi, dove l’Ospedale Infantile della “Santa Famiglia” ebbe la sua prima sede, nel 1880. L’abitazione non era lontana da Villa Valsovano, che gli Shelley l’anno precedente avevano scelto, presumibilmente, proprio per stare vicini ai loro amici, con cui si incontravano quotidianamente, come apprendiamo dai diari di Mary e dalle lettere (Lettera di Percy a Thomas Love Peacock del 24 agosto 1819). Durante questo ultimo soggiorno livornese, Percy Shelley concluse Ode to Liberty, che voleva celebrare la rivoluzione liberale scoppiata in Spagna nel gennaio 1820, scrisse l’epistola poetica per Maria Gisborne, che l’anno precedente gli aveva anche impartito lezioni di spagnolo, e compose la celeberrima ode All’allodola (To a Skylark).
Abbiamo cambiato il nostro progetto di andare subito a Firenze, & ora ci siamo stabiliti per tre mesi in una piccola casa di campagna, in un grazioso scenario verdeggiante vicino Livorno.
Ho uno studio qui, in una torre simile a quella di Scythrop – dove ho appena iniziato a recuperare le facoltà di lettura e scrittura. La mia salute, ogni volta che non soffia il Libeccio, migliora. – Dalla mia torre vedo il mare con le sue isole, Gorgona, Capria, Elba & Corsica, da una parte, e gli Appennini dall’altra.
A Roma soffrimmo una grave afflizione per la perdita del nostro figlio maggiore, che era di tale bellezza e promessa da renderlo meritatamente l’idolo dei nostri cuori. Lasciammo la capitale del mondo, ansiosi di fuggire per un po’ da un luogo troppo intimamente associato alla sua presenza e alla sua perdita. Alcuni nostri amici abitavano nelle vicinanze di Livorno, e prendemmo una casetta, Villa Valsovano, a circa a metà strada tra la città e Montenero, dove rimanemmo durante l’estate. La nostra villa era situata in mezzo a un podere; i contadini cantavano mentre lavoravano sotto le nostre finestre, durante gli ardori di una stagione caldissima, e di sera la ruota idraulica scricchiolava mentre l’irrigazione procedeva, e le lucciole scintillavano tra le siepi di mirto: - la natura era luminosa, soleggiata e allegra, o variata da temporali di un terrore maestoso, come non ne avevamo mai visti prima.
In cima alla casa vi era una sorta di terrazza. Se ne trovano spesso in Italia, generalmente coperte. Questa era molto piccola, e non solo coperta, ma anche vetrata; Shelley ne fece il suo studio. Si affacciava su un’ampia prospettiva di fertile campagna, e dominava la vista del mare vicino. I temporali che a volte variavano la nostra giornata apparivano sommamente pittoreschi quando venivano spinti attraverso l’oceano; a volte le nuvole scure e spaventose scendevano verso le onde, e diventavano trombe marine, che agitavano le acque sottostanti, mentre venivano inseguite e disperse dalla tempesta. Altre volte la luce abbagliante del sole e il calore rendevano [la terrazza] quasi intollerabile a chiunque altro, ma Shelley si crogiolava in entrambi, e la sua salute e il suo spirito si rianimavano sotto la loro influenza. In questa cella ariosa scrisse la maggior parte dei Cenci.
Cara Marianne
A Livorno conduciamo una vita molto monotona e perciò non posso scrivere nulla per divertirti – Abitiamo in una piccola casa di campagna alla fine di un viottolo verde, circondata da un podère; questi podère sono proprio ciò che Hunt vorrebbe – sono come i nostri orti, con la sola differenza che la magnifica fertilità di questo paese dona loro – un ampio letto di cavoli è molto poco pittoresco in Inghilterra – ma qui i solchi si alternano a filari d’uva come festoni sui loro supporti – è pieno di ulivi, fichi e peschi e le siepi di recinzione sono di mirto, che ha appena cessato di fiorire – il loro fiore ha l’odore più dolce e tenue del mondo, come una deliziosa spezia – verdi sentieri erbosi ti conducono attraverso le viti – la gente è sempre indaffarata – ed è piacevole vedere tre o quattro di loro trasformare in un giorno un’aiuola di mais indiano in una di sedano – in questa stagione calda lavorano in camicia o grembiule (con il petto scoperto); le gambe marroni hanno quasi, se non per una ricca sfumatura di rosso, il colore della terra che smuovono – Cantano non molto melodiosamente ma molto forte – la musica di Rossini – Mi rivedrai, ti rivedrò e sono accompagnati dalla cicala, una specie di piccolo scarabeo che con la coda fa un rumore tanto forte quanto Johnny quando canta – vivono sugli alberi e tre o quattro insieme bastano per assordarti – È alla cicala che Anacreonte ha dedicato un’ode che nelle traduzioni inglesi è chiamata a una cavalletta.
In primavera passammo una o due settimane vicino Livorno, prendendo in prestito la casa di alcuni amici, che erano assenti per un viaggio in Inghilterra. – Fu in una splendida sera d’estate, mentre passeggiavamo per sentieri fiancheggiati da siepi di mirto, rifugio delle lucciole, che udimmo il canto dell’allodola che gli ispirò una delle sue poesie più belle. Scrisse la lettera alla Signora Gisborne da quella casa, che era sua; aveva scelto come studio il laboratorio del figlio, che era un ingegnere. La Signora Gisborne era stata in gioventù amica di mio padre. Era una signora dai grandi talenti, e la sua natura sincera e affettuosa la rendeva affascinante. Aveva un’amore intenso per la conoscenza, una sensibilità delicata e vibrante, e, dopo una vita di considerevoli avversità, conservava freschezza d’animo. Come amica prediletta di mio padre l’avevamo fervidamente cercata, e tra noi si era stabilita l’amicizia più aperta e cordiale.
Le mie occupazioni sono queste, mi sveglio di solito alle sette leggo mezz’ora, poi mi alzo, faccio colazione. Dopo colazione salgo sulla mia torre, e leggo o scrivo fino alle due. Poi pranziamo – dopo pranzo leggo Dante con Mary, spettegoliamo un po’, mangio uva & fichi, a volte cammino, anche se raramente; e alle cinque e mezzo faccio visita alla Signora Gisborne, che legge in spagnolo con me fino quasi alle sette. Poi veniamo a prendere Mary & passeggiamo fino all’ora di cena circa. La Signora Gisborne è una donna abbastanza amabile & molto talentuosa, è δημοκρατικη & αθεη [democratica e atea] – fino a che punto possa essere φιλαυθρωπη [filantropica] non lo so, perché è agli antipodi dell’entusiasmo. Suo marito, un uomo con le labbra piccole e sottili, la fronte sfuggente e un naso prodigioso, è una noia mortale.
Fig. 1. L’albergo Aquila Nera in una cartolina del 1850 circa, prima del trasferimento, nel 1856, sugli scali D’Azeglio, dove si trova tuttora il Palazzo dell’Aquila Nera. Luigi Dattari gestì l’albergo dal 1846.
Fig. 2. Antonio Piemontesi, Pianta della città di Livorno, Stampa del 1791-1799 ca. Le strade in cui si trovavano i sue alberghi sono state evidenziate (https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/9/90/Livorno_map_of_the_town_%281790%29_by_Antonio_Piemontesi_01.jpg)
Fig. 3. La Chiesa di San Ferdinando Re devastata dopo uno dei bombardamenti del 1943 (https://lavecchialivorno.blogspot.com/p/foto-depoca-stradario-di-livorno.html)
Fig. 4. Via Grande devastata dopo uno dei bombardamenti del 1943 (https://lavecchialivorno.blogspot.com/p/foto-depoca-stradario-di-livorno.html)
Fig. 5. Giuseppe Maria Terreni, Ponte Lungo, Stampa del 1785 circa (https://lavecchialivorno.blogspot.com/p/foto-depoca-stradario-di-livorno.html)
Fig. 6. Michele Tausch, Pianta di Livorno (1814). Il podere degli Shelley si trovava nella parte inferiore, sulla destra, https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Livorno_map_of_the_town_(1814)_by_Michele_Tausch_01.jpg
Fig. 7. Villa Valsovano oggi
IV.i.114-36
CENCI [Inginocchiandosi.
Dio!
ascoltami! Se questa massa di carne tanto bella
che tu hai reso mia figlia; questo mio sangue,
questa particola del mio corpo diviso;
o piuttosto, questo mio veleno e tormento
la cui vista mi contagia e intossica; questo demonio
scaturito da me come da un inferno, fu destinato
a qualcosa di buono; se la sua splendida avvenenza
fu accesa per illuminare questo oscuro mondo;
se alimentate dalla tua più pura rugiada di amore
in lei fioriscono virtù che infonderebbro
la pace della vita, ti prego, per amor mio,
come tu sei il comune Dio e Padre
di lei, di me, di tutti; revoca quel decreto!
Terra, nel nome di Dio, fa’ che il suo cibo sia
veleno, finché non si incrosti tutta
di piaghe di lebbroso! Cielo, piovi sulla sua testa
le urticanti gocce della rugiada maremmana,
finché non sia macchiata come un rospo; inaridisci
quelle sue labbra accese dall’amore, storpia le belle membra,
deformale odiosamente! Onniveggente sole,
colpisci per invidia quegli occhi che scoccano la vita
con i tuoi raggi accecanti!
IV.iv.135-49
BEATRICE
Eppure, se mi arrestate
siete il giudice e il carnefice
di quel che è la vita della vita: un alito
d’accusa uccide un nome innocente, e lascia
a una storpia assoluzione la povera vita
che senza onore è una maschera. È falso
che io sia colpevole di infame parricidio,
benché debba gioire, con giustissima causa,
che altre mani abbiano spacciato l’anima di mio padre
a supplicare la pietà che lui negava a me.
Ora lasciateci libere: non macchiate una nobile casa
Con vaghe congetture di un crimine negato;
non aggiungete alle nostre sofferenze e alla vostra negligenza
un fardello più grave; sono già state troppe;
lasciateci il relitto che abbiamo.
CAPITOLO I
Sono soltanto le quattro del pomeriggio, ma è inverno, e il sole è già tramontato. Non ci sono nuvole nel cielo terso e gelido, su cui si allunga la traccia dei suoi raggi obliqui, ma l’aria stessa è soffusa di una lieve sfumatura rosata a sua volta riflessa sulla neve che copre il terreno. Vivo in un cottage isolato, su una vasta brughiera disabitata, da dove non mi giunge alcuna voce o suono di vita. Vedo la desolata pianura coperta di bianco, escluse alcune macchie scure sulla sommità di qualche collinetta, dove la neve, dopo essere scivolata obliquamente sui pendii ripidi, si è posata in uno strato più sottile che sul terreno pianeggiante, ed è stata sciolta dal sole di mezzogiorno. Qualche uccello becchetta lo spesso strato di ghiaccio che ricopre le pozze d’acqua – è tanto tempo che il gelo continua.
Mi trovo in uno strano stato d’animo. Sono sola – completamente sola – al mondo. La cattiva sorte, come un morbo malefico, mi ha colpita, lasciandomi inaridita e spenta. So che sto per morire, e ne sono contenta – persino gioiosa. Mi tastò il polso: il battito è veloce; mi metto la mano scarna sulla guancia, e sento che brucia. Dentro di me, un lieve spirito, come un fuoco vivace che sta per spegnersi, emette le sue ultime scintille. Non vedrò mai più la neve di un altro inverno – credo che mai più sentirò il calore vivificante del sole di un’altra estate: è con questa convinzione che mi accingo a scrivere la mia tragica storia. Forse una storia come la mia dovrebbe morire con me, ma una sensazione che non so definire mi spinge a proseguire in questo mio intento, e io sono troppo debole nel corpo e nell'anima per resistere anche al più lieve impulso. Mentre la vita pulsava forte dentro di me, in verità pensavo che la mia storia fosse tale da suscitare un sacro orrore e che per questo non potesse essere espressa in parole: solo adesso, vicina alla morte, mi sento di profanare, raccontandola, quanto viene essa di arcano e di terribile. È come se nel bosco delle Eumenidi nessuno, se non coloro che stanno per morire, potessero entrare; ed Edipo sta per morire.
Ma cosa sto scrivendo? – Devo raccogliere le idee. Non so se qualcuno poserà gli occhi su queste pagine a parte te, amico mio, che le riceverai alla mia morte. Non le indirizzo a te solo, perché sarà per me un piacere soffermarmi a parlare della nostra amicizia in un modo che non avrebbe alcun senso se tu solo leggessi quello che scriverò. Racconterò dunque la mia storia come se la scrivessi per degli sconosciuti.
Livorno, 1° luglio 1820
Il ragno stende la sua tela, che si trovi
In torre di poeta, cantina o fienile o albero;
il baco fra le foglie del gelso verdi scure
il suo sudario e la sua culla sempre tesse;
così io, che i moralisti dicono bacato,
siedo filando attorno a questa forma corruttibile,
da sottili fili di pensiero vario e fine,
non rete di parole tessuta in vividi colori
per prendere i pigri insetti che ronzano di giono –
ma una soffice cellula, dove quando il giorno muore
la memoria possa vestire d’ali il mio vivente nome,
e nutrirlo con gli asfodeli della fama,
che crescono in quei cuori che mi devon ricordare,
rendendo amore un’immortalità.
[…]
E qui, Archimago misterioso, io siedo,
tramando oscuri incanti e diavoleschi aggeggi,
le autopropellenti ruote della mente
che pompano spergiuri dai prevosti, e macinano
lo spirito gentile dei nostri miti recensori
in un’impalpabile schiuma di salaci ingiurie,
increspando l’oceano del loro appagamento –
siedo, sorrido o sospiro, come mi gira,
ma non per loro – il Libeccio infuria intorno
con incostante e pigro suono,
bado più a quello che a loro – dei tuoni il fumo
si raccoglie sulle montagne, come un mantello
piegato di traverso sulle loro spalle larghe e nude;
il grano al soffio dell’aria ondeggiante
ondeggia come un oceano – e le viti
stanno tremando tutte sui tralicci –
il mormorio del mare che si sveglia riempie
le vuote pause della raffica – il colle sembra grigio
attraverso la bianca pioggia elettrica –
e dalle forre là, con cupo sforzo,
ulula l’interrotto tuono; sopra il cielo
sorride da uno squarcio, come l’occhio dell’Amore
sulla terra inquieta – con queste cose intorno,
come potrebbe un uomo degno dell’amicizia vostra badare a questa guerra
di vermi? Al petulante strido degli avvoltoi del mondo,
alla censura, allo stupore o al loro elogio?
Salute a te, gioioso Spirito!
Uccello mai non fosti,
tu che dal Cielo, o là vicino,
rovesci a pieno cuore,
profuse melodie di non studiata arte.
Più in alto, ancor più in alto
dalla terra tu ti slanci
come una nuvola di fuoco;
con le ali varchi l’azzurro abisso,
e cantando ancora sali, e salendo ancora canti.
Nel dorato bagliore
Del Sole che sprofonda,
dove le nuvole s’accendono,
trascorri nel tuo volo,
come incorporea gioia, la cui corsa è appena cominciata.
[…]
Meglio di tutti i ritmi,
dal dilettoso suono –
meglio di tutti i tesori
che si trovano nei libri –
la tua maestria sarebbe per il poeta, tu Spregiatrice del suolo!
Insegnami solo metà dell’allegria
Che la tua mente conosce,
una sì armoniosa follia
dalle mie labbra fluirebbe,
che il mondo allora ascolterebbe – come io ora ascolto te.
Baldi, Rita, L'Aquila Nera. Un palazzo simbolo della borghesia livornese, Livorno, Debatte, 2009.
Canuto, Francesca, Paesaggio, parchi e giardini nella storia di Livorno, Livorno, Debatte, 2007.
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Feo, Giuditta Moly, Livorno nel Grand Tour. Guida ai luoghi letterari, Pisa, Edizioni ETS, 2006.
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Scheda a cura di:
Nicoletta Caputo
Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica
Università di Pisa
(Marzo 2025)
Ultimo aggiornamento
03.04.2025